Realtà ed empatia. L’ aggressività sociale, come ad esempio la violenza domestica, è stata associata a una ridotta capacità di assumere il punto di vista, e quindi la prospettiva esperienziale, di un’altra persona. In altre parole una mancanza di empatia.
Di recente un gruppo di ricercatori, guidati da Aline W. de Borst, si sono chiesti se l’esperienza virtuale di un episodio di violenza nel ruolo della vittima potesse raggiungere le giuste aree del cervello e stimolare un cambiamento.
Ecco un resoconto della loro ricerca pubblicata su eNeuro.
La realtà virtuale attiva alcune reti cerebrali che aumentano la capacità di identificarsi con altre persone e la tecnologia utilizzata potrebbe diventare uno strumento importante nel trattamento di trasgressori violenti.
Realtà ed empatia. Affinché riescano a entrare maggior mente in empatia con gli altri. Un ‘ esperienza di realtà virtuale, con prospettiva in prima persona e che fornisca dei feedback multisensoriali, può indurre il cervello a pensare che un corpo virtuale sia il suo vero corpo.
Questo fa sì che il cervello reagisca agli eventi virtuali come se stessero accadendo veramente.
De Borst et al. hanno usato la risonanza magnetica funzionale per monitorare l’attività cerebrale dei partecipanti mentre sperimentavano un’ anima zione in realtà virtuale di un uomo che abusava verbalmente di una donna, dal punto di vista della donna.
Prima di guardare la scena, i partecipanti hanno seguito un training di realtà virtuale incarnando la donna (prospettiva in prima persona) o uno spettatore che guardava la donna.
Realtà ed ampatia. Le persone che hanno sperimentato l’incarnazione in prima per sona hanno identificato il corpo della donna come proprio e hanno dimo strato un’attività cerebrale nello spazio personale e nelle reti di possesso del corpo.
Hanno anche mostrato una forte attività in alcune parti del cervello che elaborano la percezione della minaccia quando l’aggressore si è virtualmente avvicinato.
Difficile dire se produrrà davvero dei risultati in campo terapeutico, ma è interessante sapere che esiste un filone di ricerca che in un certo senso cerca di comprendere il funzionamento e le potenzialità del cervello… robopatico, come forse direbbe Osho citando Lewis Yablonsky:
“Un robopatico è una persona la cui patologia comporta comportamenti ed esistenza simili a quelli di un robot.
È un uomo solo di nome. Avrebbe potuto essere un computer. Potrebbe esserlo. Un robopatico è un essere umano che funziona insensibilmente, meccanicamente.
In breve, in modo morto. Un robopatico è un automa. Il suo stato esistenziale non è neppure disumano.
Non è umano e certamente non è nemmeno disuma no, perché per essere disumani prima bisogna essere umani.
Il suo stato esi stenziale può essere descritto solo come lo descrivono i Sufi, lo chia mano “a-umano”.
Non ha valore umano né in un senso né nell’altro. Non è né umano né disumano, è “a-umano”.
Queste sono le caratteristiche di que sta malattia. Rifletti su di esse, perché sono le tue caratteristiche, le caratteristiche di tutti.
Fino a quando non ti illuminerai, queste caratteristiche ti seguiranno come un’ombra.
Possiamo definire l’illuminazione come ‘uscire dalla robopatologia’, diventare per la prima volta coscienza.
Abbandonare la meccanica, non essere più identificati con la meccanica, diventare testimoni, consapevolezza, risveglio”.
OSHO
Realtà ed emaptia. È chiaro che, senza essere dei “trasgressori violenti”, un po’ robopatici lo siamo tutti e non sarebbe male mettersi cuffie, mascherina e sensori alla Matrix e fare un po’ di esperienza di illuminazione …
Nell’attesa, non ci resta che… medi tare!
First Person Virtual Embodiment Modulates Cortical Network That Encodes the Bodily Self and Its Surrounding Space During the Experience of Domestic Violence, di Aline W. de Borst, Maria V. Sanchez-Vives, Me! Slater e Beatrice de Gelder
Testo di Osho da: Sufi: The People of the Path, Voi. 1 #7
Articolo tratto da Oshotime n. 269 del 2020